Quando mi hanno telefonato per invitarmi ad esporre alla “Giostra” che ogni anno, ad Agosto, si svolge presso Castello del Matese (CE), ho risposto immediatamente con quel “Si” che mi avrebbe impegnato, coattivamente, a cercare nelle mie insondabili periferie del senso una qualche sintesi, una ragione da tradurre, una trasparenza da nascondere in un’apparenza.
Ho cominciato così a macerare in quella erosione che è la solita domanda: dipingere cosa, perché, per chi?, che ogni volta apre la possibilità di un’opera, ne fa il dramma di una inevitabile auto psicologia condotta da una delle cento facce interiori di un autore, fa venir voglia di tacere e contemporaneamente scappare sbattendo la porta.
Ho cominciato, insomma, a partecipare al lungo e contorto gioco della resa alla futilità delle domande, della riduzione ai minimi termini del linguaggio che seleziona e misura e della perversione inconcepibile di un dizionario che nelle parole fonda il proprio non-senso.
E’ un gioco di attese e di provocazioni, di orizzonti che svaniscono quando vengono disegnati mentre scintillano come apparizioni quando vengono abbandonati.
E’ un gioco mortale di forme che saranno partorite e cestinate come un attimo di debolezza in cui non ci riconosciamo e, insieme, di scoperte allusive che ci attraggono irresistibilmente verso un punto incongruo ma denso.
E’ un gioco dell’oca in cui il percorso termina in un vicolo invisibile sulla mappa, forse fuori dalla mappa, forse fuori dal gioco stesso.
E’ un gioco che, quest’anno, è finito così:
Molte volte, come sempre, mi hanno chiesto “che significa ?” e sempre ho cercato di professarmi innocente come il bambino che graffia le pareti di cellulosa con linee immaginarie, figure verissime nella loro assurdità, mondi astrusi e sproporzionati tanto poetici da rendere evidente quanto sia unicamente nostra l’inadeguatezza al mondo.
Molte risposte ho cercato di dare per dichiarare la mia impossibilità di una risposta, per raccontare che per me, figurare (al momento mi sembra il termine migliore per descrivere l’insieme e l’esito del mio impegno artistico), è soprattutto fare un'esperienza, vivere un tempo ed una situazione irripetibile come quella di un uomo il quale – immaginando che il suo scopo sia il nord - si incammina per strada alla ricerca del nord, tenta di selezionare le traiettorie che ad esso lo avvicinano, prova ad ancorare lo sguardo angolare su un punto prescelto … ma che, dopo i primi passi sente il dubbio del nord, avverte l’inconsistenza di un semplice nord per giustificare un cammino così lungo e impegnativo, prova l’ineffabile – ma indicibile – sensazione che il solo nord non basta alla fame di un altrove e che, talora, compaiono vicoli marginali ed inaspettati molto più seducenti di un orizzonte vasto ma predeterminato.
Poi è morto Renato Pinelli.
Un collega di lavoro per oltre vent’anni di cui non saprei dire nulla.
Una crisalide che si stava liberando di un corpo maschile per volare definitivamente all’altezza del cuore universale, là dove tutto è riconosciuto, tutto è reale, tutto è umanità e storia, attimo e sempre, vivere e tante altre cose inenarrabili.
Renato è morto più di tutti gli altri perché è morto come uomo e come donna, lasciandoci dimezzati nella nostra banalità di persone tutte d’un pezzo, nella nostra follia di dichiararci sani.
Con quali carezze lo accoglierà quel Dio a cui si è ribellato per non avergli concesso di scegliere se essere maschio o femmina ? Con quali lacrime – nel consegnargli le chiavi della felicità definitiva e perenne - gli angeli custodi gli chiederanno perdono per averlo abbandonato in vita ?
Domande che sognano risposte impossibili, e così l’orizzonte “Renato Pinelli” non è che la metafora dell’orizzonte che si libera dei cercatori d’oro: perché non c’è tesoro che possa essere trovato esattamente dove lo cerchiamo.
Non so nulla di Renato Pinelli, e nulla c’è di lui che in me abbia un luogo conosciuto.
Ma è esattamente per questo che la sua morte mi ha detto cose che non ho percepito in altre scomparse.
Ecco, per un mistero insondabile la sua morte ha dato luogo ad una voce che – nel silenzio d’attesa del mio lavoro artistico – non avevo distinto dal fondo delle voci universali: una voce che ripeteva “complessità … complessità … complessità…
Una voce che ripeteva il nome vero di Renato.
E, chissà, forse era proprio Renato che mi gridava, stupito che potessimo incontrarci ora che non ci saremmo mai più visti, il titolo che effettivamente sintetizzava il lavoro che avevo esposto a Castello del Matese.
Non so nulla di Renato Pinelli e dunque non mi chiedete di Lui null’altro. So di questa strana esperienza che ho vissuto, di cui egli si è reso protagonista senza chiedermi né permesso né scusa.
Di questa esperienza che è la sostanza vitale per la quale vale ancora la pena – oggi – lasciare che un pezzo di tempo, di sudore, di solitudine ne sia parte.
Bottone Marcellino