mercoledì 19 settembre 2012

LA FATICA DEL BELLO

Per salvaguardare il territorio e il paesaggio non è sufficiente pianificare, imporre vincoli, far rispettare le regole .


Geom. Bottone Marcellino - Piedimonte Matese (Caserta) - 19 settembre 2012 - Email: bmarcellino@email.it

 (Pubblicato:
- sul sito www.UNITEL.it - Unione Nazionale Italiana Tecnici Enti Locali - in data 19/9/2012;
- sul sito www.lexambiente.it - Rivista giuridica online a cura di Luca Ramacci - in data 20/09/2012;)


PREMESSA
In un articolo comparso sul sito LEXAMBIENTE.IT , il dr. Grisanti si è chiesto : Non ultimare le opere edili nei termini prescritti da leggi, regolamenti e/o permesso di costruire è reato ?
Devo dire che di fronte alla proposizione di questo interrogativo, forse per i miei trascorsi di dipendente Comunale dislocato presso l’Ufficio Tecnico, ho sentito come il tonfo di  antiche questioni precipitate dal ripiano di un archivio delle non-soluzioni, quelle che tutti depositiamo da qualche parte – in attesa che la speranza si giustifichi in una “illuminazione”- quando il presente è troppo esigente per consentirci di individuare un confine condivisibile.

Questa domanda, infatti, ha bussato molte volte alla voglia di affermare valori, di segnalare incoerenze o – addirittura il vuoto di certi “impegni normativi” apparenti e sostanzialmente inefficaci: ma, incapace di rispondervi con le sole e solite armi della logica e dei principi, non ha avuto che l’insoddisfacente risposta di un … “mmh”.

Ed anche ora, che per una oscura ragione mi appresto a riconsiderarne il senso, il perimetro, la prospettiva, sento che questa domanda chiama ad una responsabilità collettiva con rintocchi che non possono essere trascurati.



LA QUESTIONE

Il fatto inoppugnabile è che voi potete stilare le più belle norme di tutela e sviluppo del territorio, potete regolamentare il più minuziosamente possibile i singoli interventi, potrete stazionare nei cantieri dei privati muniti di ogni genere di apparecchio di rilevazione delle differenze, delle variazioni, ecc… rispetto all’assentito, e … …
… … e nonostante tutto pervenire alla costruzione di un mondo altro, inferiore, degradato e provvisorio, ma – ad un tempo e incontestabilmente - diverso da quello programmato eppure “legittimo”.

E’ il mondo delle cose iniziate e mai finite, delle strutture pubbliche e private nate da grandi idee ed aspettative e poi inceppate in un respiro troppo corto, dei frutti - a cui tutti tendevano mani rapaci - lasciati marcire dopo il primo morso: è il giardino dell’Eden aperto agli uomini che spingevano per entrare e che ora giacciono corrosi da una fame che chiamavano sazietà.


E’ il mondo condensato intorno al nucleo atomico di questo evento/non-evento che – al di fuori di ogni prevedibilità – si perpetua con questa successione:
»       Richiesta del privato di modificare lo status quo;
»       Esame dell’istanza, imposizione di vincoli, limitazioni, ecc.., verifica di compatibilità con gli obiettivi e strumenti generali di difesa degli interessi collettivi generali, e assenso a mutare lo status quo;
»       Realizzazione effettiva del privato solo di una “parte” – benché per tale parte “conforme” – rispetto all’assentito.
»       Costruzione di un mondo “reale” che impatta con i valori riconosciuti e tutelati con gli strumenti di programmazione e con la disciplina attuativa.

E’ l’evento-tarlo che guardi agire mentre ti chiedi dove sia l’errore, per quale ignota alchimia è possibile - dalla voglia di bello e di giusto – generare un mostro?

E’ il mondo dell’uomo che pensa, ci ripensa, avanza e poi frena improvvisamente, scommette e si perde anche quando vince:
»       è un palazzo di sei piani costruito fino al terzo;
»       è un’abitazione caratteristica con rivestimento in pietrame che si è fermata al rinzaffo;
»       è un blocco di case a schiera in cui l’abitazione centrale è ferma al telaio travi/pilastri (perché il proprietario ha perso il lavoro, era titolare di una ditta fallita, ecc…) mentre tutto il resto è rifinito di lusso;
»       è una cappella cimiteriale dove la croce provvisoria di tavole da imballaggio marcisce al posto di una scultura mai finita o mai collocata sulla facciata principale;
»       è una stalla in cui gli animali non hanno mai visto intonaci alle pareti o vetri alle finestre;
»       è una teoria di muretti che non hanno mai conosciuto sostenitori e perciò si sostengono a vicenda come vittime in un lager;
»       è una mancanza che permea ogni cosa finita, che racconta un sogno provvisorio e traballante, che traccia un confine sempre imprevedibile, che rende monca la visione attesa, che delude come un racconto in cui il senso della storia è che la storia non ha senso.

È qualcosa che, secondo il dr. Grisanti, si può e si deve combattere applicando le sanzioni previste dalla legge.

E’ qualcosa che, invece, a mio avviso si deve combattere con altre armi.



QUALI SANZIONI ?

Per contrastare il degrado causato dalla parziale esecuzione di quanto autorizzato con Permesso di Cotruire, il dr. Grisanti ritiene di individuare un corpus di norme sanzionatorie svolgendo il seguente ragionamento :
“è notorio che la legislazione urbanistica ha il fine di assicurare il corretto e programmato assetto del territorio nonché la pubblica incolumità, oltre a concorrere, insieme alla legislazione dei beni culturali, a proteggere l’ambiente (compreso gli ecosistemi e la salute dell’uomo), il paesaggio e il patrimonio storico-culturale.
Considerando, quindi, che l’attività edilizia (branca dell’urbanistica prima, del governo del territorio oggi) va ad incidere su “beni comuni” nonché su valori costituzionalmente protetti, è del tutto evidente che all’indomani della Legge n. 1150/1942 (il cui art. 31 non prevedeva un termine per la fine dei lavori) ed a seguito dell’aumento della sensibilità per i vari interessi protetti il legislatore statale non poteva non preoccuparsi a che tale attività potesse essere autorizzabile imponendo un ragionevole termine per l’ultimazione delle opere.
Solo con la Legge n. 10/1977 è stato introdotto, in via generale, l’obbligo di ultimare le opere entro tre anni dal rilascio della concessione edilizia (oggi entro tre anni dall’inizio dei lavori, che deve avvenire entro un anno dal rilascio del permesso di costruire – art. 15 del D.P.R. n. 380/2001).
La Legge n. 10/1977 ha altresì introdotto una “norma penale in bianco”, applicabile alla fase esecutiva dell’opera, che sanziona l’inosservanza di leggi, regolamenti e prescrizioni contenute nella concessione edilizia (permesso di costruire); tale sanzione è oggi contenuta nell’art. 44, comma 1, lettera a) del D.P.R. n. 380/2001.
Allo scrivente è del tutto evidente che la sanzione penale in questione è manifestamente applicabile nei casi di mancata ultimazione delle opere nei termini previsti dalla legge (art. 15 del D.P.R. n. 380/2001), dai regolamenti edilizi (ritengo che non vi sia regolamento locale che non contenga una pari disposizione) e riportata, ordinariamente quale obbligo, anche nel permesso di costruire.”

Sulla base di tale ragionamento, dunque il dr. Grisanti conclude:
In ragione di quanto esposto, non si comprende il motivo per il quale – per quanto mi consta – gli agenti di Polizia Giudiziaria e i tecnici comunali non provvedano a trasmettere alla competente Autorità Giudiziaria la comunicazione della notizia di reato ogni qualvolta i lavori di costruzione non vengano conclusi nel termine imposto.
In conclusione, è auspicabile, anche a tutela del patrimonio culturale, che gli addetti alla vigilanza urbanistico-edilizia, le forze di polizia e l’Autorità Giudiziaria penale considerino con la dovuta attenzione la fattispecie penale della mancata conclusione dei lavori nei termini e la conseguente applicazione della sanzione prevista dall’art. 44, comma 1, lett. a) del D.P.R. n. 380/2001.”

Così esposta, però, non mi pare una tesi convincente, in quanto superabile con le seguenti controdeduzioni:

1.      LA MANCATA ULTIMAZIONE DEI LAVORI NON E’ SANZIONABILE  
Che la P.A. non abbia possibilità di seguire la strada indicata dal dr. Grisanti mi sembra deducibile dalla piana lettura dell’art. 15 del dpr 380/01 e s.m.i., di seguito trascritta:

Art. 15 (R)
Efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire
(legge 28 gennaio 1977, n. 10, art. 4, commi 3, 4 e 5; legge 17 agosto 1942, n. 1150, art. 31, comma 11)
 
  1. Nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori.
  2.  Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un  anno  dal  rilascio  del  titolo; quello di ultimazione, entro il quale  l'opera  deve  essere  completata non può superare i tre anni dall'inizio  dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con  provvedimento  motivato,  per  fatti  sopravvenuti estranei alla volontà  del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade   di   diritto   per   la  parte  non  eseguita,  tranne  che, anteriormente  alla  scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può  essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione  della  mole  dell'opera  da  realizzare  o  delle sue particolari  caratteristiche  tecnico-costruttive,  ovvero  quando si tratti  di  opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.
  3.  La  realizzazione  della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito e' subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere  ancora  da  eseguire,  salvo  che  le stesse non rientrino tra quelle  realizzabili  mediante  denuncia di inizio attività ai sensi dell'articolo  22.  Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione.
  4.  Il  permesso  decade  con  l'entrata  in vigore di contrastanti previsioni  urbanistiche,  salvo  che  i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio.


Infatti se il Legislatore ha stabilito cheLa  realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito e' subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere  ancora  da  eseguire”, significa – senza ombra di dubbio – che ritiene non sanzionabile l’esecuzione parziale, entro il termine di ultimazione fissato nel Permesso di Costruire, di un intervento assentito (ragionando al contrario si perverrebbe alla conclusione assurda secondo la quale il Legislatore sarebbe favorevole ad assentire all’esecuzione di opere integrative di una costruzione che considera sanzionabile … … ) .


2.    LA MANCATA ULTIMAZIONE DEI LAVORI NON E’ UNA VIOLAZIONE  
Non dotata di sufficienti argomenti dimostrativi mi appare anche la tesi – pure indicata dal dr. Grisanti – secondo la qualeLa Legge n. 10/1977 ha altresì introdotto una “norma penale in bianco”, applicabile alla fase esecutiva dell’opera, che sanziona l’inosservanza di leggi, regolamenti e prescrizioni contenute nella concessione edilizia (permesso di costruire); tale sanzione è oggi contenuta nell’art. 44, comma 1, lettera a) del D.P.R. n. 380/2001”.

Cosa dice, infatti, la norma citata e sotto trascritta:



Art. 44 (L)
Sanzioni penali
(legge 28 febbraio 1985, n. 47, articoli 19 e 20; decreto-legge 23 aprile 1985, n. 146, art. 3, convertito, con modificazioni, in legge 21 giugno 1985, n. 298)
 
    1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative, si applica: 
  a) l'ammenda fino a 10329 euro per l'inosservanza delle norme,      prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai  regolamenti  edilizi,  dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire; 
  b) l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 5164 a 51645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale  difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante  l'ordine di sospensione; 
  c) l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 15493 a 51645 euro nel caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio, come previsto dal primo comma dell'articolo 30. La  stessa  pena  si applica anche  nel  caso  di  interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale,  in  variazione  essenziale,  in  totale difformità o in assenza del permesso. 
    2. La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi e' stata lottizzazione abusiva, dispone la  confisca  dei  terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente  costruite.  Per effetto della confisca  i  terreni  sono  acquisiti  di  diritto  e gratuitamente al  patrimonio  del  comune  nel  cui  territorio  e' avvenuta la lottizzazione. La sentenza definitiva e' titolo per  la immediata trascrizione nei registri immobiliari. 
    2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi  edilizi  suscettibili  di  realizzazione  mediante denuncia di inizio attività ai sensi dell'articolo 22, comma 3, eseguiti in assenza o in totale difformità dalla stessa. ((10)) 
    
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AGGIORNAMENTO (10) 
Il D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla L. 24 novembre 2003, n. 326,  ha  disposto  (con  l'art.  32,  comma 47) che "Le sanzioni pecuniarie di cui  all'articolo  44  del  decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, sono incrementate del cento per cento". 


Ebbene, anche in questo caso, la piana lettura della norma non allude in alcun modo alla sanzionabilità – in via penale – della non integrale esecuzione, nei termini indicati dal Permesso di Costruire, di opere regolarmente approvate.
Infatti,l'inosservanzaritenuta penalmente perseguibile dal Legislatore ai sensi dell’art.44, comma 1, lett.a ), è riferibile sempre e comunque ad un “facere” contrario a quello “limite” imposto dalle leggi/regolamenti, non certo al “non facere” che è la mancata ultimazione dei lavori entro un certo tempo.

E che questa sia la lettura conforme della norma se ne ricava una conferma indiretta dal successivo art. 45 del medesimo DPR 380/01 e s.m.i. , laddove il Legislatore esplicita inequivocabilmente che il presupposto per l’esercizio dell’azione penale e/o della sospensione dell’azione penale sono indissolubilmente connessi alla esecuzione di violazioni edilizie e/o alla loro sanatoria.


 
Art. 45 (L)
Norme relative all'azione penale
(legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 22)
 
    1. L'azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all'articolo 36.
    2. ((COMMA ABROGATO DAL D. LGS. 2 LUGLIO 2010, N. 104)).
    3. Il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.
 




Questo punto, al fine di evitare una improvvida estensione del raggio dell’azione penale ben oltre il limite della necessità di un fatto/comportamento lesivo, merita di essere trattato con qualche premessa in più.

Bisogna ricordare, infatti, che – secondo l’insegnamento del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale - con l’adozione del termine ”Permesso di Costruire” si designa un titolo edilizio che allude al fatto “che lo ius aedificandi non discende dall’autorità che lo concede, essendo connaturato alla proprietà (o diritto equipollente), e che al tempo stesso non revoca in dubbio che quel diritto è sottoposto, nell’interesse comune e per la salvaguardia di superiori valori, ad un regime di governo e controllo amministrativo”.

Da ciò è agevole derivare l’evidenza che l’esercizio del “diritto di costruire” è – prima di tutto – una delle forme con cui il privato si afferma come dominus, e dunque un diritto che non può essere soppresso da un insieme di regole nominalisticamente finalizzate alla tutela di interessi pubblici ma sostanzialmente inibitive/espropriative.

Dunque non si può pensare ad alcuna legge urbanistico/edilizia, e me che meno al DPR 380/01 e s.m.i., in termini di formulario di inibizioni che mummificano il privato in un rapporto di sudditanza invalidante alla P.A. .

Ad esempio:
·       è pubblico l’interesse al rispetto di distanze minime nell’edificazione, ma non lo è imporre che si costruisca ad una precisa distanza;
·       è pubblico l’interesse ad insediare sul territorio edifici che non superino determinate plano-volumetrie, ma non lo è imporre che si costruiscano solo edifici a forma piramidale;
·       ecc… .

Ora, se si è giunti a questo approdo, la conseguenza è inevitabile: i termini fissati all’art.15 del DPR 380/01  e s.m.i. non designano un obbligo “temporale” di provvedere  decorso il quale il titolare del Permesso di Costruire incorre in sanzioni, bensì i limiti temporali entro i quali l’esercizio del diritto di costruire e di proprietà può essere svolto senza ulteriori controlli di conformità da parte della Pubblica Amministrazione.

E’ come se la P.A. affermasse:
Ok, caro privato, puoi procedere perché - per come stanno oggi le cose - il tuo diritto è compatibile con quello generale. Non metterci troppo tempo, però, perché le cose potrebbero cambiare. Anzi, facciamo così: ci rivediamo fra qualche anno per rifare il punto della situazione. Ciao.”

Insomma, è pubblico l’interesse ad inibire gli interventi del privato che contrastino con gli interessi generali definiti dagli strumenti urbanistici, ma è privato l’interesse ad eseguire - secondo la propria organizzazione, disponibilità economica, ecc…,  fino a che non si esaurisca il potere liberatorio del Permesso di Costruire - gli interventi che siano stati ritenuti conformi ai medesimi strumenti urbanistici.

Ragionando diversamente, e cioè in base al principio “deve essere sanzionato chi non esegue, nel termine indicato dal PdC, TUTTO quanto è stato autorizzato con il PdC”, si perverrebbe ad una conclusione tanto paradossale quanto contraddittoria.

Infatti, supponiamo che un Comune rilasci un PdC per la realizzazione di un edificio di tre piani, caratterizzato da base quadrata di 10 metri per lato ed altezza 12 metri:

·        dovremmo ritenere un reato perseguibile il fatto che - alla scadenza del termine di validità del PdC – il privato abbia realizzato, ad esempio, solo 2 dei tre piani autorizzati ? ;
·        se la risposta è “SI”, allora dovremmo ritenere un reato perseguibile anche il fatto che - alla scadenza del termine di validità del PdC – il privato abbia realizzato solo 1 dei tre piani autorizzati … ;
·        anzi,  se la risposta è “SI”, dovremmo ritenere un reato perseguibile anche il fatto che - alla scadenza del termine di validità del PdC – il privato abbia realizzato solo 1/10 dei tre piani autorizzati … ;
·        e, per le stesse ragioni, se la risposta è “SI”, allora dovremmo ritenere un reato perseguibile anche il fatto che - alla scadenza del termine di validità del PdC – il privato non abbia realizzato … …. …. nulla dei tre piani autorizzati ;
·        ma ciò è paradossale e costituisce una contraddizione in termini, perché equivale ad affermare che gli interessi collettivi tutelati dalla P.A. possano essere compromessi – e dunque giustificano una previsione sanzionatoria - anche dal fatto che il privato … non faccia nulla.

Teorizzare l’illiceità di un “non facere”, in altre parole, avrebbe senso solo muovendo da un attributo non posseduto dal Permesso di Costruire: quello di “negozio giuridico” con cui la P.A. e il privato assumono impegni reciproci – in materia urbanistico/edilizia – analoghi a quello della contrattualistica ordinaria (convenzioni, atti unilaterali d’obbligo, asservimenti, cessioni, ecc…, ) formalizzata secondo principi codicistici.

Dunque,  mi pare che alla domanda posta dal dr. Grisanti :Non ultimare le opere edili nei termini prescritti da leggi, regolamenti e/o permesso di costruire è reato ? debba rispondersi negativamente, in quanto (prendendo a prestito una formula espressiva enunciata, in un altro contesto,  dalla Corte di Cassazione - Sezione III penale) un’eventuale condanna sarebbe il risultato di un’estensione della norma penale incriminatrice oltre la sua portata attraverso un’interpretazione analogica “in malam partem” non consentita ...”.



NON SANZIONI MA CULTURA

L’esigenza di contrastare questa imprevista malattia della modernità, cioè il degrado del territorio e del paesaggio causato dall’insediamento di opere incompiute, balza agli occhi di qualunque osservatore del mondo che si dipana oltre il naso.

Ma opporre soluzioni “sanzionatorie” a questo tipo di problematiche è – a mio avviso -come combattere una infezione con il codice penale.

E’ un limite che conosco bene, perché – come ho accennato in precedenza – mi ha fatto credere, quando operavo direttamente sul campo, che l’arma della pretesa del rispetto di regole formali fosse sufficientemente intimidatoria e convincente.

E, comunque, opporre (solo eventuali) soluzioni “sanzionatorie” non risolve, come la storia dimostra per fatti concludenti.

Bisogna - invece - opporsi con la fatica di ricostruire continuamente quel muro di valori – sul quale fonda la consistenza e credibilità delle norme sopraelevate – che il tempo depaupera di resina vitale: il muro che contiene tutti i nomi dei viventi e che, perciò, la comunità riconosce e difende.

Bisogna che si smetta di credere alla favola satanica di chi ci illude che ci possa essere qualcosa di veramente nostro senza essere contemporaneamente anche degli altri.

Ad esempio:
»       che possiamo costruirci la nostra bella villa sul dirupo della scogliera di Capri senza che questa vanità implichi detrazione di valori estetici per gli altri;
»       che possiamo sottrarre la nostra piccola pietra-cimelio-fermacarte dal Colosseo senza che questa appropriazione sottragga consistenza alla storia universale;
»       che possiamo ammassare baracche e costruzioni provvisorie, dove immergerci nelle  nostre attività saltuarie o voluttuarie, senza ferire lo sguardo degli uccelli migratori che ripercorrono le rotte del ritorno;
»       che possiamo iniziare una costruzione e lasciarla incompiuta – con pilastri e ferri d’attesa infissi nell’orizzonte, pareti di laterizi scheggiati, graticci di materiali affastellati e indefinibili a chiusura di varchi che un giorno saranno porte e finestre, … – senza ferire lo sguardo dei vicini, la salubrità del circondario, l’attesa del turista che si è avventurato nel borgo o del cercatore di funghi che si è perso nel bosco.

Bisogna smettere, in definitiva, di pensare che ciò che togliamo agli altri non sia esattamente ciò che buttiamo di noi stessi.



Piedimonte Matese 19/09/2012                                geom. Bottone Marcellino

martedì 4 settembre 2012

IL PIANO CASA CAMPANIA E I FABBRICATI RICADENTI IN DUE COMUNI LIMITROFI


In seguito alla pubblicazione di alcuni commenti al ”PIANO CASA DELLA REGIONE CAMPANIA”, un professionista mi ha invitato a discutere in ordine ad una particolare possibilità applicativa della Legge Regionale Campania 19/2009 e s.m.i..

Poiché la domanda e la risposta possono arricchire il dibattito in corso su una Legislazione controversa e dagli effetti – per così dire – pregnanti, ritengo utile sottoporla al giudizio critico degli operatori e di quanti vogliano, a loro volta, partecipare le proprie opinioni.

 

Geom. Bottone Marcellino

Piedimonte Matese (Caserta) – 4 settembre 2012


 (Pubblicato:
- sul sito www.UNITEL.it - Unione Nazionale Italiana Tecnici Enti Locali - in data 5/9/2012;
- sul sito www.lexambiente.it - Rivista giuridica on line a cura di Luca Ramacci - in data 5/9/2012)

 

QUESITO

Buona sera geom. Bottone Marcellino sono l'arch. Rossi (nome di fantasia) da … … .
volevo, cortesemente, un suo parere riguardo all'applicazione del Piano Casa su un fabbricato rurale ricadente tra due Comuni. Si tratta di un immobile diviso in due parti di cui la prima ricade nel territorio “
A“ e la seconda, di maggiore estensione, in quello di “B“ .

Ho presentato al Comune “A“ il P. di C. per la ristrutturazione edilizia con l'ampliamento del 20% computando tutta la volumetria esistente su entrambi i Comuni e realizzando l'ampliamento del 20% di tale volumetria solo su quello “A“.

Il tecnico istruttore della pratica mi ha esposto la sua perplessità per tale operazione avallando la tesi che, in questo modo, ho apportato un maggior carico urbanistico solo sul Comune “A“.

Io, invece, sostengo che si possa trasportare il 20 % della volumetria dell'immobile dal Comune “B“ in quello “A“ non generando nessun carico urbanistico in quanto:

"è possibile il trasporto del 20% della volumetria esistente dal Comune “B“ al Comune “A“ perché l'immobile fa parte dello stesso ambito fondiario unitario formato da p.lle contigue (L. n. 19/2008, art. 6 bis, co. 4), anche se ricadenti in due diversi comuni, e che tale trasporto di volumetria non genera nessun tipo di carico urbanistico sul Comune “A“ perchè l'intervento straordinario di ampliamento è in deroga agli strumenti comunali".

volevo sapere Voi cosa ne pensate in merito.

fiducioso le porgo distinti saluti....arch. Rossi (nome di fantasia).




 

RISPOSTA

Spett.le Arch. Rossi (nome di fantasia),

mi appresto con piacere a formulare le mie considerazioni sul tema che mi ha sottoposto.

Tema che attiene all’applicabilità del regime derogativo del Piano Casa Campania ad una particolare classe di immobili: quelli ricadenti in due Comuni limitrofi.

E che, nel caso specifico, riguardal'applicazione del Piano Casa su un fabbricato rurale ricadente tra due Comuni.

Si tratta di un immobile diviso in due parti di cui la prima ricade nel territorio A e la seconda, di maggiore estensione, in quello B.

Ho presentato al Comune A il P. di C. per la ristrutturazione edilizia con l'ampliamento del 20% computando tutta la volumetria esistente su entrambi i Comuni e realizzando l'ampliamento del 20% di tale volumetria solo su quello A.”

 

 

PREMESSA

Attenendomi letteralmente a quanto mi riferisce con la mail inviata il 29/08/2012, ricavo che sul tema si confrontano due tesi:

  1. quella “oppositiva” del tecnico del Comune A, il qualeha esposto la sua perplessità per tale operazione avallando la tesi che, in questo modo, ho apportato un maggior carico urbanistico solo sul Comune A.
  2. quella “possibilista” del proponente Arch. Rossi (nome di fantasia), il quale sostieneche si possa trasportare il 20 % della volumetria dell'immobile dal Comune B in quello A non generando nessun carico urbanistico in quanto:

"è possibile il trasporto del 20% della volumetria esistente dal Comune B al Comune A perché l'immobile fa parte dello stesso ambito fondiario unitario formato da p.lle contigue (L. n. 19/2008, art. 6 bis, co. 4), anche se ricadenti in due diversi comuni, e che tale trasporto di volumetria non genera nessun tipo di carico urbanistico sul Comune A perché l'intervento straordinario di ampliamento è in deroga agli strumenti comunali".

 

 

QUESTIONI PRELIMINARI

Prima di esporLe il mio pensiero mi sembra doveroso dar conto delle ragioni “di merito” in base alle quali non condivido l’impostazione della discussione decisa dalle parti. Infatti:

1.    a mio avviso, di fronte della domanda:si può trasportare il 20 % della volumetria dell'immobile dal Comune B in quello A?”, non è di alcuna rilevanza stabilire se tale surplus di volumetria apporti o meno un corrispondente aumento del preesistentecarico urbanistico nel Comune A;

2.    per vero, in generale, l’aumento del carico urbanistico è una conseguenza inevitabile dell’applicazione del Piano Casa (su questo punto concordo con il tecnico del Comune di A, in quanto per aversi aumento del carico urbanistico è sufficiente non solo un mero ampliamento plano volumetrico ma anche una mera modificazione d’uso del preesistente), un fatto – cioè – connaturato e inseparabile dallo scopo esplicito del legislatore dic) a incrementare, in risposta anche ai bisogni abitativi delle famiglie in condizioni di particolare disagio economico e sociale, il patrimonio di edilizia residenziale pubblica e privata anche attraverso la riqualificazione di aree urbane degradate o esposte a particolari rischi ambientali e sociali assicurando le condizioni di salvaguardia del patrimonio storico, artistico, paesaggistico e culturale;(art. 1, comma 1, lett. c), della LRC 19/2009 e s.m.i.) ;

 

3.    ma se anche dovesse dimostrarsi l’erroneità di tale assunto, perché dovrebbe derivarne una conseguenza sul modo di formulare una risposta alla domanda:si può trasportare il 20 % della volumetria dell'immobile dal Comune B in quello A?”, visto che al tema delcarico urbanisticosi attagliano questioni (di tutt’altro genere) in ordine alla “onerosità e/o gratuità” di un intervento ed alla scelta del “titolo edilizio” che lo autorizzi ?;

 

4.    in altre parole, quale che sia la risposta che le parti ritengano più corretta rispetto al tema della sussistenza o meno di un incremento delcarico urbanistico”, non v’è possibilità di dedurre - da tale risposta -  una ragione dirimente o pregiudiziale per l’eventuale assenso o diniego all’ipotesi ditrasportare il 20 % della volumetria dell'immobile dal Comune B in quello A ?”: opporsi o assentire a questa ipotesi, infatti, richiede lo svolgimento di analisi diverse e dirette a stabilire la compatibilità degli interventi del Piano Casa con gli obiettivi e gli strumenti di pianificazione del territorio.

 

 

 

UNA IMPOSTAZIONE DIVERSA

Si è detto che la vexata quaestio riguardal'applicazione del Piano Casa su un fabbricato rurale ricadente tra due Comuni.

Si tratta di un immobile diviso in due parti di cui la prima ricade nel territorio A e la seconda, di maggiore estensione, in quello B.

Ho presentato al Comune A il P.di C. per la ristrutturazione edilizia con l'ampliamento del 20% computando tutta la volumetria esistente su entrambi i Comuni e realizzando l'ampliamento del 20% di tale volumetria solo su quello A.”

 

E si è cercato di dire che il tentativo di pervenire ad una risposta utile non può arenarsi nella discussione – sostanzialmente irrilevante – sulla onerosità o gratuità (tale è la conseguenza dell’aumento del carico urbanistico ) di tale intervento.

Si è invece affermato che la soluzione è da ricercarsi in una analisi che guardi al complesso delle norme di carattere urbanistico-edilizio, locali e generali, in base al quale si decide cosa, come e quando può realizzarsi su un territorio.

Un tentativo, in tal senso, è stato fatto dall’arch. Rossi (nome di fantasia) laddove ha ricercato le ragioni per cui "è possibile il trasporto del 20% della volumetria esistente dal Comune B al Comune A … … “ nel testo del Piano Casa “ … (L. n. 19/2008, art. 6 bis, co. 4)”, che recita :

Art. 6-bis

Interventi edilizi in zona agricola

 

1. Nelle zone agricole sono consentiti i mutamenti di destinazione d’uso di immobili o di loro parti, regolarmente assentiti, per uso residenziale del nucleo familiare del proprietario del fondo agricolo o per attività connesse allo sviluppo integrato dell’azienda agricola.

2. Per gli immobili di cui al comma 1 è possibile applicare le disposizioni dell’articolo 4 o dell’articolo 5 della presente legge, con l’obbligo di destinare non meno del venti per cento della volumetria esistente ad uso agricolo.

3. Le opere di urbanizzazione primaria, nelle zone agricole e nelle zone classificate “E” interessate dagli interventi previsti dal presente articolo, sono realizzate a spese dei soggetti richiedenti i singoli interventi secondo le disposizioni della vigente normativa in materia edilizia.

4. L’applicazione del presente articolo si attua anche mediante il cumulo delle volumetrie di più edifici ricadenti nell’ambito fondiario unitario, formato da particelle contigue, di proprietà del medesimo richiedente già alla data dell’entrata in vigore della presente legge. Le aree oggetto di demolizione, rimaste libere, devono essere oggetto di apposito ripristino ambientale da realizzarsi prima della costruzione del nuovo immobile.

5. In deroga agli strumenti urbanistici vigenti, al fine di adeguare, incentivare e valorizzare l’attività delle aziende agricole, è consentita la realizzazione di nuove costruzioni ad uso produttivo nella misura massima di 0,03 mc/mq di superficie aziendale.

 

Tentativo che, pur condivisibile nel metodo, non sembra dirimente nel merito, atteso che la norma non concede appigli per sostenere la possibilità di una osmosi volumetrica tra facoltà di ampliamento “in deroga” di edifici a cavallo di un confine intercomunale, limitandosi invece a consentire ”… il cumulo delle volumetrie di più edifici ricadenti nell’ambito fondiario unitario, formato da particelle contigue, di proprietà del medesimo richiedente …” .

 

Per proseguire ripartiamo, allora, da considerazioni generali intorno alla domanda “se e in che misura la legislazione urbanistica generale e speciale consente di affrontare il tema della edificabilità di aree ricadenti in due Comuni limitrofi ?

 

 

RIFERIMENTI NORMATIVI

Iniziamo con l’osservare che il Piano Casa Campania, pur non prevedendo una specifica disciplina regolatrice della fattispecie particolare del "… … trasporto del 20% della volumetria esistente dal Comune B al Comune A … … “, non è del tutto silente sulle questioni che afferiscono alla possibilità che le problematiche edificatorie di un Comune possano essere risolte con il “trasporto” volumetrico nei Comuni limitrofi.

Si veda, ad esempio, la previsione letterale dell’art. 7 comma 5 bis della LRC19/09 e s.m.i. :

“Art. 7

Riqualificazione aree urbane degradate

5-bis. Per le industrie inquinanti o per quelle non compatibili con le attività residenziali limitrofe, la sostituzione edilizia è consentita a condizione della preventiva delocalizzazione dell’azienda in ambito regionale, garantendo, con un apposito piano di delocalizzazione, l’incremento del dieci per cento nei successivi cinque anni degli attuali livelli occupazionali. Il piano di delocalizzazione si realizza attraverso il piano urbanistico attuativo di cui alla legge regionale 22 dicembre 2004, n. 16”

 

e quella dell’art. 11-bis comma 1 bis della LRC19/09 e s.m.i. :

 

“Art.11-bis

Disposizioni per la delocalizzazione di immobili da aree a rischio idrogeologico molto elevato e dalla zona rossa a rischio eruzione del Vesuvio

1. Al fine di prevenire il rischio idrogeologico e quello di eruzione del Vesuvio e di salvaguardare l’incolumità delle persone e la sicurezza degli insediamenti abitativi, è incentivata la delocalizzazione, nell’ambito dello stesso comune o in altri comuni limitrofi, previo accordo tra i medesimi, degli edifici residenziali contenenti unità abitative destinate a prima casa ricadenti nelle aree classificate dall’Autorità di Bacino a pericolosità o rischio da frana molto elevato, con riferimento ai fenomeni di colata rapida o di crollo di volumi rocciosi per quanto riguarda il rischio idrogeologico, e nella zona rossa del “Piano di Emergenza dell’area vesuviana” del dipartimento di Protezione Civile, per quanto riguarda il rischio eruzione del Vesuvio.”

 

 

Questo modo – opportuno e logico - di ricercare soluzioni a situazioni particolari da parte del Legislatore campano, d’altronde non è né nuovo né speciale, se si considera quanto dal medesimo stabilito fin dalla LRC 14/82:

 

“REGIONE CAMPANIA

LEGGE REGIONALE N. 14 DEL 20-03-1982

Indirizzi programmatici e direttive fondamentali relative all’esercizio delle funzioni delegate in materia di urbanistica, ai sensi dell’art. 1 - II comma - della legge regionale 1º settembre 1981, n. 65.

ALLEGATO

Indirizzi e direttive per l’esercizio delle funzioni delegate in materia di urbanistica.

1.8. Zone agricole.

Gli strumenti urbanistici generali dovranno individuare le destinazioni colturali in atto per tutelare le aree agricole particolarmente produttive, evitando che esse siano utilizzate a fini edilizi.

Nelle zone agricole l’indice di fabbricabilità fondiaria sarà così articolato:

- Aree boschive, pascolive e incolte - 0,003 mc / mq;

- Aree seminative ed a frutteto - 0,03 mc / mq;

- Aree seminative irrigue con colture pregiate ed orti a produzione ciclica intensiva - 0,05 mc / mq.

Nel computo dei volumi abitativi di cui sopra non sono da conteggiarsi: stalle, i silos, i magazzini e i locali per la lavorazione dei prodotti agricoli, in funzione della conduzione del fondo e delle sue caratteristiche colturali e aziendali documentate, nonché gli impianti per la raccolta e la lavorazione dei prodotti lattiero - caseari.

Per tali realizzazioni possono essere stabiliti indici di fabbricabilità territoriali rispetto al fondo, non maggiore di 0,10 mc / mq; altresì per gli allevamenti zootecnici che possono essere consentiti esclusivamente nelle zone boschive, incolte e pascolive, non vanno superati i seguenti limiti:

- indice di copertura 0,05;

- minima distanza dai confini mt. 20.

Le esistenti costruzioni a destinazione agricola possono, in caso di necessità , essere ampliate fino ad un massimo di 20% dell’esistente cubatura, purché esse siano direttamente utilizzate per la conduzione del fondo opportunamente documentata.

Per le necessità abitative dell’imprenditore agricolo a titolo principale è consentito l’accorpamento di lotti di terreni non contigui a condizione che sull’area asservita venga trascritto, presso la competente Conservatoria Immobiliare, vincolo di inedificabilità a favore del Comune da riportare successivamente su apposita mappa catastale depositata presso l’Ufficio Tecnico Comunale.

In ogni caso l’asservimento non potrà consentirsi per volumi superiori a 500 mc.

Per le aziende che insistono su terreni di Comuni limitrofi è ammesso l’accorpamento dei volumi nell’area di un solo Comune.

Tutte le aree la cui cubatura è stata utilizzata a fini edificatori restano vincolate alla inedificabilità e sono evidenziate su mappe catastali tenute in pubblica visione.

Nelle zone agricole la concessione ad edificare per le residenze può essere rilasciata per la conduzione del fondo esclusivamente ai proprietari coltivatori diretti, proprietari conduttori in economia, ovvero ai proprietari concedenti, nonché agli affittuari o mezzadri aventi diritto a sostituirsi al proprietario nell’esecuzione delle opere e considerati imprenditori agricoli titolo principale ai sensi dell’art. 12 della legge 9 maggio 1975, n. 153.”

 

 

 

Norma che ha consentito a molti Comuni di prevedere – nella strumentazione urbanistico edilizia – un apparato di norme volte alla soluzione di quelle particolari problematiche che si determinano per la gestione della proprietà fondiaria che si articola lungo i confini intercomunali.

 

Questa estrazione di riferimenti dal corpus normativo ci consente, insomma, di affermare che l’ipotesi del "… … trasporto del 20% della volumetria esistente dal Comune Bal Comune A … … “, in generale, merita di non essere valutata alla stregua di un tabù.

 

 

UN PERCORSO DI LAVORO

E se non è un tabù si può costruire una risposta che – ad esempio – si avvalga dei seguenti argomenti:

 

  1. al cospetto di un immobile ricadente in due Comuni limitrofi, la possibilità di pervenire a soluzioni edificatorie che coinvolgano due diverse entità amministrative dovrebbe essere la regola e non l’eccezione, per il semplice motivo che i confini amministrativi definiscono una realtà nominale, una invenzione con cui si rendono applicabili i principi di gestione dei problemi reali di un territorio e praticabili quelle iniziative di dettaglio invocate da esigenze puntuali;  

 

  1. a partire da questa considerazione preliminare, assunta dal legislatore su un piano normativo generale mediante l’indicazione di una serie di proposte solutive, si possono estrapolare gli elementi utili per definire una serie di principi e/o requisiti cui conformare le decisioni di dettaglio che – ad esempio – attengono l’ipotesi del "… … trasporto del 20% della volumetria esistente dal Comune B al Comune A … “ ;

 

  1. tra i principi insuperabili, di certo, vanno annoverati :

  • la salvaguardia degli equilibri territoriali generali (il trasferimento di volumi da un Comune a quello limitrofo non deve incrementare il volume complessivamente previsto sui due Comuni);
  • la salvaguardia delle specificità locali (il trasferimento di volumi da un Comune a quello limitrofo non deve alterare il quadro delle destinazioni urbanistiche pianificate dei rispettivi Comuni );
  • la salvaguardia delle ragioni di continenza (il trasferimento di volumi da un Comune a quello limitrofo deve essere limitato e finalizzato alla soluzione di casi circoscritti, essendo inimmaginabile un trasferimento di massa verso ogni dove per scopi voluttuari e/o speculativi);
  • e via di questo passo.

 

  1. Applicando questi principi alla fattispecie dellaapplicazione del Piano Casa su un fabbricato rurale ricadente tra due Comuni”, e cioè adun immobile diviso in due parti di cui la prima ricade nel territorio A e la seconda, di maggiore estensione, in quello B”, da realizzarsi medianteristrutturazione edilizia con l'ampliamento del 20% computando tutta la volumetria esistente su entrambi i Comuni e realizzando l'ampliamento del 20% di tale volumetria solo su quello A, si potrebbero svolgere le seguenti considerazioni:

  • ad un livello sovra comunale non dovrebbero derivarne conseguenze significative, atteso che il maggior volume a costruirsi nel Comune di A sarebbe compensato dal minor volume edificabile nel limitrofo Comune di B;
  • a livello locale, ove la volumetria a trasferirsi sia relativamente contenuta ed il trasferimento avvenga su una parte del medesimo immobile collocato – senza soluzioni di continuità – a cavallo del confine Comunale A/B, e in costanza di destinazione urbanistica (cioè a condizione che il trasferimento volumetrico avvenga tra zone urbanistiche omogenee dei Comuni limitrofi), l’interesse del Comune A a porre veti di principio sarebbe difficilmente argomentabile, in quanto – a meno di ragioni ostative di tipo strutturale, vincolistico, ecc… , oggettive e qualificate – compito della P.A. è anche di evitare, mediante l’esercizio della gestione del territorio, di imporre inutili, inefficaci ed ingiustificate limitazioni alla tutela degli interessi dei singoli  privati.

  1.  Entro tali limiti, in pratica, previa opportuna costruzione di un trasparente percorso amministrativo che concluda in adeguate decisioni degli organi competenti del Comune B e A, consistenti nell’esplicito e reciproco assenso e nella formulazione delle opportune condizioni operative, credo di poter suggerire un condivisibile percorso di lavoro.

 

 

Cordiali saluti,

                                                               geom. Bottone Marcellino

 

Piedimonte Matese, 4 settembre 2012